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1953-2023: i settant’anni della doppia elica Il 25 aprile 1953 la rivista Nature pubblicava tre articoli sulla struttura del DNA. Il più celebre è quello che porta la firma dei premi Nobel James Watson e Francis Crick Quel giorno l’Italia celebrava la ricorrenza della liberazione dal nazifascismo: era il Paese contadino ritratto nei film di Don Camillo e Peppone, ancora segnato dalle cicatrici della guerra ma sul punto di avviare la rivoluzione industriale, che avrebbe aperto una nuova fase della sua storia. Da meno di due mesi era morto Iosif Stalin e, pochi anni più tardi, anche Winston Churchill avrebbe concluso la sua brillante carriera politica, mettendo così fine all’oscuro periodo dominato dal secondo conflitto mondiale. Un nuovo mondo doveva esser ricostruito e uno dei mattoni più edificanti di questa impresa fu posto dalla scienza, con la pubblicazione sulla rivista Nature – esattamente settant’anni fa – della struttura a doppia elica del DNA. In occasione di questo importante compleanno, il prof. Giuseppe Novelli – dell’Università degli Studi “Tor Vergata” di Roma – racconta i progressi ottenuti in genetica a partire da questa scoperta. WATSON&CRICK E LA DOPPIA ELICA Prima della guerra che avrebbe diviso l’Europa e il mondo, erano state le scoperte nel campo della fisica a guidare il progresso: basti pensare alle figure di Marie Curie, Niels Bohr, Werner Heisenberg o Albert Einstein. Dalla radioattività alla fissione nucleare e alla fisica quantistica ognuno di loro ha portato un contributo inestimabile al progresso in campo scientifico. Ma nel periodo post-bellico la rivoluzione si è compiuta sul campo della biologia – e in particolar modo della genetica – grazie alla scoperta della struttura del DNA, depositario delle informazioni necessarie per la costruzione dell’organismo. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i biochimici si sono interrogati su quale molecola avesse il compito di trasportare l’informazione genetica da una generazione all’altra e, attraverso gli esperimenti del canadese Oswald Avery, fu possibile confermare che i geni erano composti da DNA e che quella piccola – per qualcuno anche insignificante – molecola era, in realtà, la chiave della vita. Ma come era fatto il DNA? Nessuno davvero lo sapeva. Tra i primi ricercatori che si dedicarono ad approfondire la struttura dell’acido desossiribonucleico vi fu il fisico Maurice Wilkins, dotato di solide competenze di cristallografia e affascinato dall’idea di rivelare la forma della molecola coinvolta nell’ereditarietà: la relazione tra forma e funzione è sempre stata il perno della biologia evoluzionistica ma, nel caso di molecole come il DNA è ancora più importante dal momento che integra anche le informazioni di chimica. Con l’inestimabile contributo di Rosalind Franklin – ingiustamente sacrificata sull’altare di una società a quel tempo decisamente troppo maschilista – Wilkins ottenne le prime foto della struttura del DNA che presentò a un congresso scientifico a Napoli, dove attirarono la curiosità di James Watson. Il sodalizio tra Wilkins, Franklin e Watson fu cementato dal comune obiettivo di descrivere ciò che nessuno aveva mai visto e che molti, negli anni precedenti, avevano sottovalutato. Ben presto si aggiunse ai tre anche Francis Crick e il quartetto dei “folli” innamorati dell’idea di rivoluzionare la biologia fu completo. Watson e Crick stabilirono una profonda sinergia e, grazie ai dati prodotti da Franklin, riuscirono a lavorare a un modello che, dopo mesi di lavoro, fu perfezionato sino al momento in cui pubblicarono, il 25 aprile 1953, l’articolo “Molecular Structure of Nucleic Acids: A Structure for Deoxyribose Nucleic Acid”. Un paio di pagine che avrebbero cambiato per sempre la storia della biologia. Meno di dieci anni più tardi, nel 1962, Watson, Crick e Wilkins (che aveva mostrato a Watson le foto prodotte da Rosalind Franklin grazie a cui questi poté definitivamente risolvere alcune incongruenze nel modello originario) furono insigniti del Premio Nobel per la Fisiologia o Medicina, mettendo i loro nomi accanto a quelli di Darwin e Mendel sul grande libro dell’ereditarietà. Franklin morì a causa di un tumore all’ovaio cinque anni dopo la pubblicazione dell’articolo di Watson e Crick, rimanendo esclusa da ogni riconoscimento – seppur gran parte del merito di questa scoperta fosse, di fatto, suo. GLI INIZI DELLA STORIA… Nel 1968 James Watson pubblicò il libro “La doppia elica”, nel quale raccontava i retroscena di una delle scoperte scientifiche più importanti del dopoguerra; fu un successo editoriale travolgente riproposto anche per il trentennale della scoperta. Il mondo scientifico si trovava all’alba di una nuova era, nella quale il sequenziamento del DNA e le terapie avanzate basate sulla modifica della doppia elica erano ancora solo un sogno remoto. Nei primi anni Ottanta, molti biologi in tutto il mondo si stavano avviando allo studio dei geni e tra questi c’era Giuseppe Novelli, oggi Professore Ordinario di Genetica Medica dell’Università degli Studi “Tor Vergata” e Direttore della U.O.C. di Genetica Medica del Policlinico Tor Vergata di Roma. “A metà degli anni Ottanta, da poco laureato in Scienze Biologiche, conobbi il prof. Bruno Dallapiccola, che era già un volto noto della genetica in Italia”, ricorda Novelli. “Aveva bisogno di un giovane ricercatore che si occupasse di genetica biochimica per complementare gli studi di citogenetica (la scienza che studia la morfologia dei cromosomi, n.d.r.) all’epoca già molto sviluppata in Italia. Non si guardava ancora ai geni bensì alle proteine da essi prodotte, perciò serviva una persona che cominciasse a studiare le malattie genetiche dal punto di vista delle proteine e degli enzimi coinvolti nella loro patogenesi. Poiché provenivo dalla buona scuola di biochimica del Prof. Giorgio Fornaini fui scelto io”. I genetisti non disponevano delle sofisticate tecnologie con cui oggi si eseguono le analisi del DNA perciò, oltre al cariotipo per valutare la struttura dei cromosomi, le loro indagini erano rivolte ad acclarare le conseguenze sulla sintesi di prodotti genici noti dell’aggiunta (come accade nella sindrome di Down) o della delezione (come accade nella sindrome di Turner) di un cromosoma. “Studiavamo il cosiddetto effetto dose”, aggiunge Novelli. “E il nostro obiettivo era capire cosa accade alle cellule nel momento in cui un cromosoma in più (o in meno) determina un aumento di un prodotto, o una sua diminuzione. Si conoscevano poche mutazioni associate a certe malattie e non avevamo metodi molecolari per diagnosticare, ad esempio, in utero malattie genetiche: cercavamo di farlo attraverso il dosaggio enzimatico o lo studio delle proteine codificate dai vari geni”. I PIONIERI DELLA MAPPATURA DEI GENI Verso la fine degli anni Ottanta arrivarono sul mercato le tecnologie con cui studiare il DNA umano: inizialmente esse erano disponibili soltanto negli Stati Uniti ma, poi, sono state importate in Europa (soprattutto in Francia). “Tra i primi ad introdurre in Italia questo genere di strumentazione è stato Mario Pirastu, dell’Ospedale Microcitemico di Cagliari, che lavorava insieme al prof. Antonio Cao sulle talassemie”, aggiunge Novelli. “Nel frattempo, noi studiavamo il DNA con la tecnica del Southern blotting che ci permetteva di cercare, all’interno di una miscela di frammenti di DNA, quelli che erano complementari a specifiche sequenze”. La reazione a catena della polimerasi (o PCR), ideata per amplificare sequenze di DNA e che avrebbe fruttato il Premio Nobel per la Chimica a Kary Mullis, era ancora lontana. “Per conoscere le nuove tecnologie in arrivo mi recai in Francia, alla corte del prof. André Boué, dell’Unité de Recherches de Biologie Prénatale dell’INSERM U.73”, prosegue Novelli. “Una delle prime realtà su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione fu la sindrome dell’X fragile, una malattia genetica che può comportare un grave ritardo mentale e vari disturbi comportamentali e che è associata alle mutazioni nel gene FMR1”. Solo all’inizio degli anni Novanta la tecnologia della PCR fece il suo ingresso nel mondo della biologia molecolare. “I metodi di studio del DNA a nostra disposizione richiedevano quantità enormi di materiale che doveva essere sempre di buona qualità. Non sempre ciò era possibile”, precisa il professor Novelli. “La PCR ha permesso di analizzare singoli tratti dei singoli geni a partire da quantità di DNA infinitesimali, dal momento che questo può essere amplificato grazie all’aggiunta di speciali enzimi come la Taq DNA polimerasi. In questa maniera può essere prodotto in quantità sufficienti per l’analisi. Quando ho iniziato il mio percorso di studio non esistevano le macchine per fare la PCR che ci sono oggi tanto che, nel mio laboratorio ad Urbino, in collaborazione con l’amico e collega Paolo Gasparini, avevamo messo a punto un metodo per fare la PCR a mano. Avevamo predisposto tre vaschette a tre temperature diverse e, ogni mezz’ora, trasferivamo piccole quantità del DNA da amplificare insieme agli enzimi per il procedimento. Allora non esisteva nemmeno l’enzima attualmente disponibile in commercio per questa operazione! Fu un lavoro pionieristico che ci permise di fare le prime diagnosi prenatali di malattie come la fibrosi cistica, sfruttando piccole quantità di DNA fetale ottenute dal liquido amniotico o dalle cellule del villo coriale”. IMPLICAZIONI SULLA DIAGNOSI DELLE MALATTIE Gli anni Novanta del secolo scorso furono, dunque, scanditi da una serie di importanti pubblicazioni nel campo della genetica umana, che portarono all’identificazione di numerosi geni legati a condizioni rare, come la malattia di Huntington o la fibrosi cistica. “Ancora non conoscevamo con precisione la mappa dei geni e andavamo letteralmente a caccia della loro posizione sui cromosomi usando procedimenti molto lunghi”, spiega Novelli. “Era necessario radunare molti pazienti e i loro famigliari così da ottenere dati a sufficienza per la creazione di alberi genealogici grazie a cui mappare un gene di interesse su qualche cromosoma. Si usavano metodi citogenetici e, solo più tardi, giunsero le tecniche molecolari che ci hanno permesso di identificare le sequenze alterate con precisione”. Così facendo i ricercatori guidati dal prof. Novelli hanno scoperto la causa genetica della sindrome di Laron – una grave forma di nanismo legata a mutazioni nel recettore dell’ormone della crescita – e della sindrome di Di George. “Abbiamo identificato alcuni marcatori dell’atrofia muscolare spinale (SMA), della distrofia miotonica, della galattosemia, di alcune forme di anemie emolitiche ereditarie, e anche di alcune malattie neuromuscolari poco note”, prosegue Novelli “Un esempio sicuramente rappresentativo del lavoro che stavamo realizzando è dato dall’identificazione del gene responsabile delle sindromi progeroidi. Abbiamo scovato i membri delle famiglie che nel mondo sono affetti da questa patologia e, dopo aver isolato la mutazione, abbiamo iniziato a imparare moltissimo su una malattia quasi sconosciuta”. GLI ALBORI DELLA GENETICA FORENSE Al di là degli utilizzi in medicina, l’evoluzione delle tecniche di studio del DNA ha avuto enormi ricadute nel campo della genetica forense con la scoperta di quelle variazioni nel DNA grazie a cui è possibile ricondurre certe tracce biologiche a un individuo piuttosto che a un altro. “Si trattava di variazioni polimorfe usate per la prima volta allo scopo di identificare specifici campioni di DNA contenuti nel sangue, nella saliva o in altri liquidi biologici ritrovati sul luogo di un crimine”, afferma Novelli, che, insieme a Bruno Dallapiccola e Aldo Spinella ha pubblicato – nel 1991- un articolo sulla rivista Nature nel quale si spiega l’utilizzo della PCR a questo proposito. “Nessun tribunale in Italia aveva mai acconsentito all’utilizzo di questa tecnologia. Fu la Corte d’Appello di L’Aquila che, per prima, autorizzò il test del DNA per l’identificazione di un sospetto a partire da una traccia biologica. Quella sentenza ha fatto storia ma fu accompagnata da un lungo strascico di polemiche in televisione e sui giornali da parte di chi era intimorito da un tale balzo avanti del progresso scientifico”. Per fortuna lo scetticismo è stato vinto e, negli anni successivi, la profilazione genomica ha addotto contributi determinanti alle indagini in casi complessi, come quelli dei delitti di Via Poma o dell’omicidio di Yara Gambirasio. INSIEME PER IL PROGRESSO DELLA SCIENZA Ognuno di questi fronti di studio del DNA ha permesso non solo di tagliare traguardi che erano impensabili ai tempi i cui Watson e Crick descrissero la struttura del DNA, ma anche di dare vita a grandi collaborazioni internazionali che nella genetica si sono rivelate indispensabili. “Insieme a Bruno Dallapiccola, Lidia Larizza e Antonino Forabosco, sono uno dei soci fondatori della Società Italiana di Genetica Umana (SIGU), oggi presieduta da Paolo Gasparini. La SIGU ha riunito sotto un unico cappello personalità di spicco della genetica italiana, tra cui Giovanni Romeo, Pierfranco Pignatti e Maurizio Genuardi, successivamente arrivati alla presidenza della Società Europea di Genetica, di cui la SIGU è un membro affiliato”, conclude Novelli, al quale spetterà il compito di coordinare i lavori della prossima edizione dello Human Genome Meeting, conferenza internazionale prevista ad aprile 2024 a Roma. Si tratta del coronamento di una carriera che ha contribuito a formare una nuova generazione di medici e biologi intorno allo studio del DNA e all’utilizzo di metodiche – come quella della PCR – il cui destino era di cambiare l’approccio alla biologia, aprendo la strada a progetti di enorme portata, fra cui il sequenziamento del Genoma Umano. Di: Enrico Orzes , 24 Aprile 2023
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